Vincitori 4° Concorso Bondeko – Poesia, racconto breve, fotografia

VINCITORI SEZIONE A – POESIA

PRIMO PREMIO Nuove ali aperte – Elisabetta Liberatore (PratolaPeligna-AQ)

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguire virtute e canoscenza

 

 

Nuove ali aperte

Oltre il respiro rinasci
in labirinti di venti e correnti
che levigano l’anima mordendo i fianchi,
lasciare che duri
nella chiarità estrema di una meta, ebbra di una rara vertigine.
sospesi su richiami ignorati
aurore di calcedonio accese su chiome risorte,
serene come la pausa di ore
graffiate dal giorno
che muta in memoria
la sua marea indocile.
E’ come tornare su una proda smarrita,
massaggiare la pelle
col tocco leggero di mani pazienti,
la ventata ricca di speme
raggiante come le fronde
grondanti di umide stille.
Oltre il limite la materia muta in altro, luce nella luce, fuoco puro
tra le membra madide e la mente è sola
Saremo noi con le nostre nudità imperfette
a scegliere profili mutati in altro,
che accettano un bene più grande
di queste linee impaurite,
una tenerezza più vera dei sorrisi impigriti.
Sarà la saggezza della conoscenza
che consola illusioni,
nuove ali aperte verso un nido d’aquila.

 

La poesia ci accompagna, “col tocco leggero di mani pazienti”, al volo evocato dal titolo.Fra venti e correnti, le ali arrotondano l’anima, che offre soffi di speranza. La mente è libera, si libra oltre la materia, per giungere alla saggezza della conoscenza.
Si aprono, allora, nuove ali verso un nido d’aquila (dalla mitologia antica associata al sole
( luce nella luce ?), manifestazione dello spirito divino).
La Conoscenza è luce della vita.
La citazione dantesca, in esergo, ci ricorda che Ulisse incita a seguire “virtute e canoscenza”: antichità-contemporaneità.

 

 

SECONDO PREMIO – Al di là del grande mare – Massimiliano Giannocco (Roma)

Al di là del grande mare

Corri, gioia mia, scappa da questo orrore, tu che puoi, vai!
Hai il vento nelle gambe e la forza nelle braccia,
per aprire la porta della speranza, laggiù, al di là del grande mare.
Corri, vita mia, a più non posso, senza voltarti indietro,
senza prestare orecchio al dolore lancinante
che mi trafiggerà, tra qualche istante.
Salpa, figlia mia, anche se il timoniere ha le sembianze del terribile Caronte. Salpa e porta con te il mio cuore, i miei sogni, le mie speranze e il nostro vissuto. Fanne buon uso, conserva questo tesoro, perché testimonierai
anche per chi non è sopravvissuto.
Naviga, vita mia, e raccontami nei sogni
quanto è bello il luogo dove crescerai
e prego tanto che rinascerai.
Nuota, gioia mia, resisti alle onde nemiche, al mare severo
e così cruento con chi brama soltanto fuggire dall’inferno.
L’ultimo pensiero, le ultime parole,
soffocate nella testa dall’improvvisa tempesta.
Ora solo due corpi, vicini, quasi abbracciati.
I volti spenti sembrano guardarsi:
Corri, vita mia, scappa, gioia mia.
Mamma, sono qui con te!
Non ti ho voluta abbandonare e poi sai una cosa?
Non è così bello, come mi dicevi, questo grande mare.

 

L’uso dell’anafora è una rimarcatura enfatica della supplica di una madre alla propria figlia: scappare dall’orrore della propria terra e salpare verso il grande mare.
L’intreccio segue l’ordine cronologico della fabula -articolandosi mediante logiche connessioni e espressioni di amore materno e di amore filiale – per correre verso l’epilogo. La narrazione è del tutto priva di retorica pietistica.
Il grande mare immagine di spazi, di agognata salvezza… infine è tomba di speranza!

 

 

TERZO PREMIO – Il viaggio nell’immaginazione – Michele Bruno (Altamura-BA)

 

Il viaggio nell’immaginazione

Sono forse i luoghi dell’immaginazione

I viaggi, le avventure,

Le sfide autentiche dell’uomo?

Sono esperienze uniche,

Nei sentieri nell’anima,

Il protagonista degli eventi sei tu,

Nel vortice dei pensieri,

Nelle tempeste emozionali,

Negli abissi più profondi,

Nei segreti celati e poi svelati.

L’immaginazione ti conduce

Verso i sentieri del tuo sé

Dove si cela la chiave per accedere

Ai luoghi dell’irrisolto,

Delle paure nascoste,

Delle emozioni sopite,

Ibernate in attesa del risveglio

Della tua anima,

E dopo l’inverno della tua esistenza

Nuove primavere attendono

Sulla soglia, la tua rinascita.

 

 

L’immaginario è il territorio del viaggio verso la scoperta del sé, che risveglia l’anima. L’anafora, figura retorica amata dai poeti, è guida del viaggio, perché ne scolpisce le tappe non prive di difficoltà per il viandante.
L’immaginazione vince sugli ostacoli “dopo l’inverno della tua esistenza nuove primavere attendono la tua rinascita”. Stilisticamente l’intreccio è il climax. La poesia è la metafora della vitalità dell’immaginazione per la crescita dell’uomo.

“Per capire la realtà lo strumento più potente è la fantasia” (Gianni Rodari)

 

 

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA – Viaggio su un tappeto d’erba – Felicita Ciceri (Ballabio-LC)

 

Viaggio Su Un Tappeto D’Erba

Ognuno di noi

porta il suo viaggio.

Strade piane

o ripidi sentieri.

Pure su pareti rocciose

toccando quasi il cielo.

Ognuno ha i suoi passi

Scoprire nuovi orizzonti.

Mentre io a piedi nudi

rincorro quell’infinito tempo.

Qui sì respira profumo intenso

che sa di campagna,

di sapori antichi.

L’alba a quell’ora

porta solo scarpe scalcagnate,

alla sola terra che pone fatiche,

che racconta in assenza di rumori,

quella quiete…

che si fa canto di ieri.

 

 

Con versi brevi ma incisivi viene scolpito il cammino dell’ uomo alla ricerca della propria identità.
Per l’autore , il desiderio di tranquillità e di pace interiore trova spazio nella natura, non sempre benevola, ma nel silenzio anche dolce nostalgia del passato.

 

 

VINCITORI SEZIONE B – RACCONTI BREVI

PRIMO PREMIO Ex aequo – La mia voce viaggia col mare – Lucia Lo Bianco (Pa)

La mia voce viaggia col mare

Aveva sempre creduto che il mare parlasse. Sì. Le avevano detto così. Vedrai che ti indicherà la strada dal fondo blu delle sue acque e le onde ti daranno luce, cullandoti fino ad acquietare le vibrazioni della tua pelle. E lei aveva pensato che fosse proprio vero perché si era messa ad ascoltare dal bordo della barca dove stavano ammassati e le era parso di sentire una voce che cercava di confortarla. Poi, lentamente, si era addormentata mentre la mamma continuava a stringerle la mano.

Shamira e sua madre viaggiavano da giorni. Una traversata per terra e per mare cercando di creare le distanze da quell’Afghanistan dove vivere era solo inferno.
“Non riuscirai ad andare a scuola se resteremo qui”, diceva la mamma. “Sei una ragazza”.
E infatti Shamira leggeva di nascosto. Si incontrava con le sue amiche in una casa sicura, dove i talebani non l’avrebbero mai trovata. E lì lasciavano liberi i sogni e le fantasie. Per i talebani una donna non poteva avere fantasie. Una donna non doveva pensare.

Poi un giorno la sede era stata scoperta e i talebani avevano preso la sua amica Jamila e sua madre. Nessuno sapeva che fine avessero fatto. Allora la mamma aveva capito. Bisognava andare. La mamma voleva un futuro diverso per lei, lontano da Herat e dal regime dei talebani.
Organizzare la fuga era stato difficile. Racimolare i soldi di nascosto e senza l’aiuto di papà. Secondo lui bisognava adattarsi e tutto sarebbe andato bene. Poi un giorno al mercato mamma era stata avvicinata da un signore alto e magro, con gli occhiali scuri. A Shamira non piaceva per niente. Avevano parlato di soldi. Tanti, troppi e Shamira aveva avuto paura che non sarebbe più riuscita a ritornare a scuola e sfiorare le pagine delicate dei libri su cui aveva studiato con gioia, fino a due anni prima. La mamma l’aveva presa da parte e le aveva chiesto di collaborare. Erano state costrette a vendere qualcosa a cui lei teneva tanto, ma era l’unico modo. Non ne esistevano altri. Sulla barca si sentivano ancora i profumi di Herat. Non riusciva a staccarsi dagli occhi il colore della sera che lentamente si dilegua dietro le montagne rendendole trasparenti di un rosa tenue e innaturale. Il grigio polvere delle strade di giorno allora scompariva e lei correva su in terrazza a osservare il dolce declino nel buio che le avrebbe consentito di sciogliersi i capelli liberandoli dal copricapo di pesante tela nera. Amava la notte fresca e purificatrice. Nessuno faceva caso a una ragazza che legge, di notte. Nessuno le avrebbe impedito di vivere in quelle storie di viaggi e di avventure in paesi a lei sconosciuti. Adorava i miti e le leggende e immaginava di trovarsi lì, proprio lì, in quelle strade bianche e assolate, con una leggera brezza che scompiglia le vesti e spingeva il passo in avanti verso magnifici spettacoli naturali in palazzi eleganti, ricchi e fastosi. La fantasia di una ragazza può davvero perdersi per sempre dentro le pagine di una storia così, quasi si trattasse di una scatola magica colma di sorprese.

Una sera però quelle pagine le erano cadute giù, dall’alto muro della terrazza.
Qualcuno le aveva raccolte l’indomani e avevano fatto il giro del quartiere. I talebani avevano cominciato ad andare di casa in casa per chiedere di chi fossero. Con le facce allungate ed inespressive ti guardavano trattenendo qualsiasi emozione e le smorfie accentuate intorno alla bocca non lasciavano intuire niente di buono. Uno in particolare, Abdul, l’aveva puntata già da tempo. Con una piega sul lato destro del labbro carnoso le aveva chiesto quanti anni avesse.
“Tredici anni è una buona età per accasarsi”, le aveva detto poi.
Non le piaceva. Non le piaceva affatto. Shamira non ci pensava per niente ad “accasarsi” con nessuno. Con quel tipo, poi!

Non erano riusciti a risalire a lei, per fortuna, ma tutto era diventato più difficile. Uscire a fare una semplice passeggiata, ad esempio, oppure passeggiare in terrazza la sera. Pensare, osservare il cielo all’imbrunire, perfino sognare si erano trasformati in un miraggio. Shamira e la mamma avevano realizzato all’improvviso che non si poteva più, in quel momento ad Herat, contare sulla possibilità remota che il miraggio diventasse realtà. Loro volevano, esigevano la realtà.

Non avevano fatto in tempo a salutare papà. Non lo sentivano da giorni e lei non riusciva a capire se le mancasse veramente. Si era sempre dimostrato avaro d’abbracci e lei si era rifugiata negli angoli accoglienti del corpo materno che l’aveva generata. Ne conosceva ogni aspetto e odore: solo la mamma era in grado di darle quelle certezze che da un po’ di tempo erano state annientate dal regime dei talebani. Da lei aveva saputo tutto sul passato del loro paese. Leyla, la sua mamma, aveva conosciuto da piccola il regime dei talebani ma poi le cose erano migliorate grazie ad interventi esterni e le donne avevano riavuto la possibilità di studiare e andare a scuola. Nel corso di quegli ultimi vent’anni loro si erano quasi occidentalizzate per ripiombare, ora, nel baratro più buio ed oscuro. Leyla, la sua mamma, aveva deciso che sua figlia dovesse vivere una vita da ragazza normale. Leyla e sua figlia non avevano scelto di fuggire: era la fuga che era venuta a cercarle.

Dal barcone stipato di pelle e di odori Shamira si perdeva nel buio profondo delle acque. Il mare! Vederlo era stata l’esperienza più affascinante della sua vita. Improvvisamente si era ricordata di tutte le storie che aveva letto, nascosta nell’oscurità della sua terrazza, dove i suoi personaggi viaggiavano e si perdevano per mare. Le era capitato tra le mani un libro che raccontava le avventure di un certo Ulisse, un eroe greco che dopo avere combattuto e vinto una guerra lontano da casa aveva impiegato dieci anni per rientrare nella sua patria. Dieci anni! Lei che in quella patria che Dio le aveva destinato c’era nata e cresciuta allora aveva pensato che dieci anni fosse un periodo davvero interminabile. Ma adesso capiva che non sarebbe bastata una vita intera per rivedere il cielo di Herat e colorarlo con il bianco delle sue morbide dita di ragazza, seguendone il filo indistinto fino all’orizzonte. Herat e le sue tinte tenui le avrebbe portate dentro, per sempre. Ulisse! Che eroe affascinante. Aveva seguito e vissuto tutte le sue disavventure attraverso il Mediterraneo. Appariva davvero inospitale quel mare se riusciva a trascinare l’astuto re di Itaca impedendogli di procedere e intrappolandolo di tanto in tanto in qualche isola sperduta. Sembrava proprio che la mala sorte lo perseguitasse ma la intrigava parecchio il modo in cui non si arrendesse mai, anche di fronte al destino più avverso. Anzi le pareva che riuscisse a trovare la forza di reagire anche nelle situazioni più difficili e impossibili, con o senza l’aiuto degli dei. E le donne poi! Dal piccolo angolino nascosto della sua adolescenza Ulisse si profilava come un principe ricco di fascino, proprio come quello dei suoi sogni, dotato di poteri soprannaturali. Anche per lei ci sarebbe stato un Ulisse che avrebbe scalato il rozzo muro di casa sua per portarla via da quella terrazza dove nascondeva i suoi più intimi desideri.

Quei giorni di stremante viaggio e difficile traversata nel Mediterraneo ormai avevano fatto scomparire qualsiasi esistenza del leggendario Ulisse dalla sua giovane immaginazione. Gli uomini e le donne che la circondavano indossavano il ricordo di vesti che avevano certamente conosciuto tempi migliori. I corpi se ne stavano accasciati senza forze, come chi non riceve le giuste attenzioni da tempo. I primi giorni avevano cantato tutti insieme e Shamira aveva cominciato a disegnare con gli occhi il paese che le avrebbe accolte, lei e la mamma. Si era ricordata di tutte le storie che si raccontavano sull’Italia. Molti suoi connazionali erano riusciti ad andare lì e dopo qualche lettera iniziale non si erano più fatti sentire. Doveva proprio essere un paese bellissimo e lei voleva scoprirlo a poco a poco. Le avevano detto che le donne erano più libere lì, che si poteva andare a scuola, studiare e leggere libri senza essere costrette a nascondersi. Anche lei sarebbe andata a

scuola e avrebbe fatto amicizia con ragazze che magari non erano neanche costrette a mettersi il velo. Il viso, gli occhi e la fronte li avrebbe portati con orgoglio e coraggio sotto il sole. Nessun talebano avrebbe potuto impedirglielo.

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Nell’angolo stretto in cui si erano rifugiate vedeva la mamma dormire. Finalmente Leyla era riuscita ad appisolarsi. Doveva essere proprio stanca da morire. Il mare intanto stava cambiando colore. Si era trasformato in un blu notte con striature bianche di spuma che spiccavano per contrasto. Pareva anche che fosse aumentato di volume così da superare a tratti e in misura sempre più crescente il livello del barcone in cui viaggiavano. Improvvisamente sentì una mano che le sfiorava la spalla sinistra. Si voltò e si trovò vicino una bocca carnosa dall’espressione malvagia. Mio Dio! Ma non poteva essere Abdul! O forse era soltanto qualcuno che assomigliava a lui. Ma

cosa voleva da lei?
“No! No! Per favore, no! Allontanati! Non voglio!”
La toccava e la strattonava mentre lei tentava d’aggrapparsi alle vesti della mamma che giaceva in stato di semi-incoscienza.
“Zitta! Fai silenzio! Facciamo presto.”
Con una mano umida e maleodorante le tappò la bocca. Ma non l’aiutava nessuno? La debolezza e la stanchezza del viaggio le impedivano di reagire come avrebbe voluto. Si sentì persa, un animale braccato. Una facile preda sconfitta.
L’onda gigante arrivò improvvisa ed imprevista a fare rivoltare la barca. Shamira si ritrovò in acqua mentre scendeva lentamente verso i fondali più oscuri del mare. Le apparvero tutte quelle creature di cui aveva letto tanto e che nei suoi sogni aveva immaginato di incontrare veramente. Le sue fantasie finalmente erano realtà e sentì la propria voce vibrare con le onde viaggiando tra le dune di sabbia fine su cui si ritrovò, distesa, a riposare.

Dopo l’ennesimo naufragio, dopo l’ennesima tragedia nel Mediterraneo il corpo di Shamira fu

l’ultimo ad essere ritrovato sulla costa. Aveva proprio un’espressione felice sul volto.

 

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Il racconto scorre agile, le immagini e i sentimenti sono descritti in modo tenue ma coinvolgente.
Il passato e il presente si alternano. Scene di vita quotidiana in patria, sogni di libertà della protagonista, sulle orme dei personaggi delle sue letture, e di contro la dura realtà della via di fuga per mare, probabile salvezza ma anche inesorabile tomba di persone e speranze. Il finale è tragico, ma pure nella sua drammaticità offre un’ immagine dolce e serena di Shamira, che riposa sulla sabbia, libera perché ha visto i suoi sogni divenire realtà.

 

 

PRIMO PREMIO Ex aequo – Lo zio in giro per il mondo – Wilma Avanzato (Chivasso -To)

 

Lo zio in giro per il mondo.
Da bambino, quante volte ne avevo sentito parlare… senza però poter dare un volto a questo fantomatico zio che tutti definivano “strano”. Pare che, laureato a pieni voti, avesse rifiutato di andare a lavorare nello studio notarile del padre e dei fratelli… e fosse partito all’avventura con pochi spiccioli in tasca. Dico “pare”, perché comunque a casa nostra si parlava poco di lui e anzi, in presenza di noi bambini, gli adulti si premuravano di cambiare discorso, se era riferito a questo parente indubbiamente “scomodo”.
Io ero incuriosito: avrei voluto sapere di più di lui e lo immaginavo come gli eroi dei romanzi che leggevo: coi capelli lunghi come Sandokan, astuto come Yanez, coraggioso come il Corsaro Nero e selvaggio come Tremal Naik…

«Ah, se è per questo, i capelli lunghi ce li ha eccome!», aveva buttato lì un giorno mio cugino Roberto.
Un uomo coi capelli lunghi? In quei bigotti anni Cinquanta? E poi Roberto come faceva a sapere che lo zio si era fatto crescere i capelli? Quando l’aveva visto?

«Non l’ho mai visto… Ma pare si faccia chiamare… con un altro nome, ecco!».
Con un altro nome? E perché? Forse non gli piaceva il suo nome? Adelchi… E poi cosa c’entrava questo coi capelli lunghi?
Ero incuriosito… e quel giorno “torturai” letteralmente Roberto perché mi raccontasse di questo zio. Ma lui non si lasciò andare a molte confidenze. Mi liquidò con un laconico: «Sei troppo piccolo per capire certe cose… Sappi solo che lo zio in giro per il mondo è la vergogna della nostra famiglia!».
Cosa c’era di così vergognoso nel viaggiare?

Anni più tardi, compresi… ma mai avrei immaginato che mio padre, il seriosissimo notaio Osvaldo Rebaudengo, fosse coinvolto in prima persona nell’intera faccenda!
E, al ricordo dello “zio in giro per il mondo”, ancora oggi mi commuovo… anche se sono trascorsi tanti anni e tutti i protagonisti di questa storia d’amore… perché, in fondo, di una meravigliosa storia d’amore fraterno stiamo parlando… non ci sono più.

** *

Bellissima, con un sorriso appena accennato, tutte le mattine alle sette, Adele attraversava con passo fiero, su un paio di scarpe dal tacco altissimo, la piazza della chiesa. Arrivava davanti alla serranda del bar e, con una forza da uomo, la tirava su. Entrava e, prima ancora di accendere le luci, faceva partire immediatamente la maestosa macchina per caffè espresso per poter servire ai primi avventori tazze ricolme di bevanda scura, profumatissima e rinvigorente.

Il suo era il bar più bello di quella piccola cittadina di provincia. Un bar dove si potevano sentire a loro agio sia gli operai che passavano di lì dopo aver terminato il turno, sia le signore impellicciate accompagnate dai loro mariti dopo la messa della domenica. Adele poi, nel suo bar tutto specchi e lampadari, vendeva anche il latte, qualche volta persino il burro, e poi cacao in polvere, caramelle, bacche di vaniglia, lievito… e così al bancone si poteva scorgere la casalinga in ciabatte e grembiule, tra il bancario vestito di tutto punto e la gran madama piena di gioielli.

Aveva cominciato a gestire il bar il 1° gennaio 1955, con una gran festa inaugurale in cui erano stati invitati il sindaco e i consiglieri comunali, il Comandante dei Vigili urbani, il Maresciallo dei Carabinieri e persino il Parroco Don Doroteo.
Gestire il bar…, già, perché non era suo, era di due fratelli notai di Torino, tali Osvaldo e Adelchi Rebaudengo. E il giorno dell’inaugurazione, il notaio Osvaldo Rebaudengo c’era eccome, e aveva elargito baci, abbracci e sorrisi alla bella barista, tanto che a tutti i presenti era stato fin troppo chiaro: Adele era sicuramente l’amante del notaio… che si sa… chi ha i soldi può permettersi moglie e concubina, basta tenere ben separate le cose… o meglio, le signore… E così il notaio l’aveva relegata in provincia, con un bel bar da gestire che da quel giorno aveva preso il pomposo nome di “Caffè Felicità” ma che fino a pochi mesi prima della ristrutturazione si chiamava “Bar Centrale” perché era situato proprio al centro del centro storico e più che un bar era quella che in piemontese si definisce una “piola”, una trattoria di terz’ordine.

L’altro fratello notaio, quello di dieci anni più giovane e dal nome “strano”, Adelchi, invece non s’era mai visto, né il giorno dell’inaugurazione né dopo… Ma si diceva che fosse un po’ svitato, come lo sono a volte i ricchi… Pare avesse abbandonato lo studio notarile che già era stato del padre e prima ancora del nonno, e si fosse messo in viaggio per fare nientemeno che il giro del mondo… I ben informati, pur senza averlo mai conosciuto, affermavano che, a differenza del fratello maggiore, fosse un uomo di una bellezza fuori dal comune, bello come un attore dei film… E vuoi vedere che, tra una tappa e l’altra di questo “famoso” giro del mondo, Adele trastullava pure lui?

Perché su una cosa tutti, uomini e donne, erano d’accordo: Adele era bellissima. Sì, il volto molto truccato, i capelli lunghi e ossigenati, con la permanente sempre fresca, le unghie lunghissime e laccate di rosso scarlatto… insomma, non una di quelle bellezze della porta accanto ma, con il bar… e che bar!… be’, era normale che fosse così vistosa, no? E che fisico! Alta più delle altre donne (pareva una di quelle indossatrici che si vedevano sulle riviste di moda o qualche volta in televisione… peccato per quei piedi non proprio da Cenerentola… un 39… forse un 40?… ma così alta ci stavano…), con un seno prorompente e due fianchi da far perdere la ragione anche a un vescovo… E infatti il primo avventore del bar, alla mattina, guarda un po’, era sempre il Parroco don Doroteo che, diceva, senza il caffettino dell’Adele (e senza un’occhiatina al suo seno prosperoso, fasciato dalla camicetta stretta stretta, insinuavano i più maliziosi) lui non sarebbe riuscito a svegliarsi per bene per celebrare la prima messa della giornata.

Gli uomini la sognavano, le donne la invidiavano e cercavano di imitarla nell’acconciatura, nel modo di camminare, nella cura dei vestiti dai colori sgargianti… anche se nessuno l’aveva mai vista da una delle parrucchiere della città e neppure nelle sartorie… Ma del resto una gran signora (signorina, pardon) come lei, chiaro che si servisse nei negozi di Torino… però le sorelle “Fernet”, soprannominate così per il loro “vizietto” coi liquorini anche di prima mattina, erano riuscite a copiarle ben due vestiti, non solo nel modello ma persino nella stoffa, quel taffetà costosissimo e prezioso che vestiva come una regina…

Che Adele fosse una gran signora era palese persino nel suo modo di parlare… un italiano perfetto, con tante parole “nuove” che pure le madame impellicciate non conoscevano… e lo faceva con quella sua voce profonda, quasi maschile ma molto sensuale. Il Maestro Giuseppino Barba, che in gioventù aveva calcato i palcoscenici minori come baritono e in vecchiaia era diventato il direttore della banda musicale, diceva che Adele aveva una bellissima voce da contralto, un timbro interessantissimo, soprattutto per quella musica moderna che stava andando per la maggiore tra i giovani… per esempio aveva la stessa voce di una certa Ilvia Maria Biolcati che quell’anno aveva vinto un concorso per voci nuove addirittura in radio…

Da sola, Adele nel bar faceva tutto: stava dietro al bancone, serviva ai tavoli, preparava le torte… dalle sette di mattina alle nove di sera, instancabile, sempre con il suo sorriso accennato sulle labbra, mai un capello fuori posto, mai una sbavatura di rossetto o una calza leggermente smagliata. Una volta aveva persino sedato un inizio di rissa tra due avventori: un ceffone a uno e un ceffone all’altro… e, quando erano intervenuti i Carabinieri chiamati da un passante, al Maresciallo lei aveva detto: «Siete arrivati tardi, ho già risolto: aspettavo voi… e questi mi avrebbero distrutto il locale!».

Poi, alle nove di sera, Adele tirava giù la saracinesca del bar per avviarsi verso casa con passo fiero, sempre su quei tacchi altissimi, stanca ma felice.
Una volta a casa, cominciava a svestirsi… via la parrucca… via le scarpe fatte su misura… che con un 43 vai a trovare una calzatura da signora e col tacco alto… via le calze di seta… via il vestito… via… via il seno finto, cucito dalle abili mani dalle lavoranti di una sartoria teatrale… e via il trucco pesante che già, a sera, lasciava intravedere un sottilissimo filo di quella barba che era stata scrupolosamente rasata al mattino…

Adele, all’anagrafe Adelchi Rebaudengo, si preparava così per andare a dormire… Puntava la sveglia sul comodino alle cinque e mezza della mattina successiva… che la sua “vestizione” bisognava di tempo.
Le sue giornate era ormai felici anche se la sua era una vittoria a metà: poteva essere se stessa solo perché il suo segreto era ben nascosto dietro al bancone di un bar…

Se non ci avesse pensato suo fratello Osvaldo quando l’aveva vista danzare in camera sua con una gonna indossata sopra ai calzoni e i belletti di mamma a imbrattare quel viso sognante e al contempo tristissimo…
«Tu hai bisogno di essere felice!», le aveva detto Osvaldo piombandole alle spalle. E lei si era vergognata, così conciata… Ma poi aveva visto gli occhi di suo fratello e aveva capito: Osvaldo le stava tendendo una mano verso la felicità.

Adelchi l’aveva sempre saputo: se suo fratello non avesse avuto l’idea di raccontare a tutti la frottola del giro del mondo e poi non avessero acquistato insieme quel bar in provincia, lontano da occhi indiscreti… lui sarebbe finito, nella migliore delle ipotesi al domicilio coatto in un paesino sperduto, e nella peggiore in un manicomio… magari “curato” con l’elettrochoc…

E invece tutto era andato bene, era ormai un lustro che Adele viveva la sua vita… e il bar andava letteralmente a gonfie vele. E soprattutto nessuno aveva mai “sospettato” nulla… Osvaldo poi aveva superato se stesso il giorno dell’inaugurazione del locale, quando le aveva mandato baci e occhiate piene di significato e tutti avevano creduto che i due fossero amanti…

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Oh, me lo sono immaginato spesso mio padre Osvaldo, una volta finita la festa di inaugurazione del bar, ridere da solo a crepapelle per quella pantomima… per averla data a bere a tutti quei mammalucchi che guardavano Adele pieni di trasgressivi e inconfessabili sogni e poi guardavano lui vomitando invidia nel crederlo l’amante della bella barista…

Ma sono certo che quella sera mio padre, oltre alle risate… si sia sentito la persona più felice del mondo perché aveva aiutato suo fratello… sua sorella… a raggiungere la felicità di essere semplicemente se stessa.

 

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L’autore congegna il racconto con deliziosa maestria; sin dal titolo.
Il nipote, bambino, immagina questo zio, mai visto, in giro per il mondo come un eroe, un cavaliere errante. Desidera saperne di più, ma gli viene detto da un cugino che lo zio “è la vergogna della nostra famiglia”.
Quel bambino, diventato adulto, comprende la realtà (la “vergogna”) e, anni dopo, è lui a darcene notizia.
Si tratta di un intreccio, che con stile rapido ed essenziale, come una discesa diretta e articolata, senza passaggi inutili, trasporta il lettore al finale: una sorpresa.
Una bella sorpresa! Dopo il depistaggio dell’autore (che vedo sorridente) servito dal titolo scopriamo chi è davvero questo zio, protagonista “in absentia”.
Merita segnalazione specifica la finezza della scelta dell’uso di due caratteri diversi di stampa: il tondo chiaro per l’inquadramento della vicenda; il tondo corsivo per la narrazione -“una favola”- della vicenda.

 

VINCITORI SEZIONE C – FOTOGRAFIA

PRIMO PREMIO – Immersione – Letizia Ronconi (Lecco)

Un’immagine fortemente simbolica in cui l’iconografia stessa entra nel processo del viaggio. Un trasferirsi tra la realtà e la sua rappresentazione geografica

 

SECONDO PREMIO – Lo sguardo – Franco Manzocchi (Mandello)

Immagine nell’immagine in cui la cornice suggerisce lo stesso video fotografico e la pittura. La cornce diventa così essa stessa fotografia creando uno stimolante contesto dialettico.

 

TERZO PREMIO – Solo andata e L’attesa – Giorgia Peroni (Genova)

Due immagini che non si fermano alla rappresentazione retorica del viaggio nel suo esotismo pur restando in una precisa riconoscibilità geografica.

La giuria ha inoltre segnalato le fotografie:

 

Il movimento è un concetto relativo – Luca Cassinelli ( Olgiate Olona -Va)

 

Oltre il tunnel – Pierluigi Gusmeroli (Veduggio con Colzano – MB)

 

La strada negata – Jenny Faleschini (Mandello-Lc)

 

Il mistero – Paola Focacci ( Forlì )